L’utopia dell’integrazione in Marocco
Rabat, luglio 2006. Per più di una settimana rifugiati e richiedenti asilo manifestano di fronte alla sede fantasma dell’Hcr a Rabat. Una trentina di persone, tra cui donne e bambini, siedono sui marciapiedi dell’avenue de Fes. Dormono, mangiano e discutono. Cartelli appesi alle pareti e sulle porte dell’edificio denunciano le cattive condizioni di vita dei rifugiati e dei richiedenti asilo in Marocco. Non riconosciuti, privi di alcun diritto, emarginati da una società che li rifiuta esplicitamente.
L’Unhcr, Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, in risposta a tale manifestazione si dichiara “fermé”, chiuso, nonostante si intravedano i funzionari all’interno.
Senza alcuna dimora, cacciati dalla chiesa dove avevano tentato di rifugiarsi, imprigionati in un paese che non li vuole, uomini e donne manifestano la loro esasperazione e chiedono che sia data loro la possibilità di emigrare in un luogo dove possano ricominciare una vita normale, visto che in Marocco, a quanto pare, è legalmente impossibile.
Parliamo con i portavoce del movimento, che ci spiegano nervosamente quanto sia frustrante la loro condizione e l’indifferenza totale con la quale sono accolte le loro richieste.
In Marocco, paese di emigrazione, la questione “africana”, come spesso viene definita la problematica concernente i flussi migratori provenienti dall’Africa subshariana, è un tabù.
E’ paradossale pensare a questo grande circolo vizioso: in Italia il “marocchino” rappresenta l’immigrato per eccellenza, il diverso, temibile perché porta con sé lo sguardo dell’altro, della povertà, della criminalità e della miseria. Qui, la storia si ripete, i ruoli sono gli stessi, cambiano gli interpreti. Ed è facile sentire commenti che esprimono riluttanza verso coloro che giungono in questa terra nordafricana in cerca di rifugio e di una vita migliore...